Bibliomania

Bibliomania

Tutti noi da piccoli siamo stati abituati ad ascoltare favole e fiabe che i nostri maestri e genitori ci leggevano come “storia della buonanotte”. Le fiabe che ci raccontavano da piccoli, come Hansel e Gretel o Cappuccetto Rosso, non erano solo storie per farci addormentare, ma ammonimenti travestiti da sogni: non uscire dal sentiero, non aprire quella porta, non fidarti degli sconosciuti.
Nel periodo di massima fioritura di questo genere letterario, le fiabe erano veri e propri strumenti di educazione sociale. Servivano a insegnare cosa fosse giusto o sbagliato, quali comportamenti evitare e quali valori rispettare, ma fungevano anche da forme di avvertimento mascherato: erano racconti che usavano la paura per preparare gli ascoltatori alla vita reale.
L’orrore del lupo, la strega nel bosco o l’orco che divora i bambini rappresentavano pericoli reali come fame, predatori, violenza, abusi, ma venivano tradotti in simboli che la comunità poteva affrontare insieme.
Infine, un po’ come i racconti dell’orrore o di avventura che oggi troviamo nelle nostre librerie, erano una fonte di catarsi, in quanto permettevano di vivere emozioni forti in modo sicuro. Attraverso il racconto si affrontavano le paure più profonde (la morte, l’abbandono, il male) in una forma simbolica e “digeribile”, e di solito, alla fine, la giustizia trionfava perché, almeno nella storia, il male poteva essere sconfitto.

La storia di cui oggi voglio parlarvi potrei cominciarla così:
C’era una volta una ragazza che non sapeva resistere alla curiosità. Non ai tesori, né ai segreti, ma ai libri. Le piaceva aprire ogni pagina, ogni porta, ogni pensiero nascosto. Nessuno ricordava il suo nome, ma in quella casa lontana tutti la chiamavano Alice.
Un giorno si svegliò nella stanza 431 di un antico maniero; non ricordava come fosse arrivata lì. Qualcuno, o qualcosa, le disse di non uscire ma, come nelle fiabe più antiche, il divieto era solo un invito travestito, e la curiosità, ancora una volta, aprì la porta giusta nel momento sbagliato.

Oggi scaviamo a fondo nell’opera di Orval e Macchiro: Bibliomania, composta da un solo volume e pubblicata da Hikari Edizioni. Come abbiamo già detto, seguiamo le vicende di una ragazzina di nome Alice che si risveglia nella stanza 431 di un enorme e stranissimo maniero dove, ad accoglierla, trova un inquietante serpente che la esorta a esprimere ogni suo desiderio, che lei vedrà realizzarsi in quella stanza. Quando l’edificio arriverà a ospitare 666 persone, comincerà una grandissima festa.
Alice però è una ragazza curiosa e decide di varcare la soglia della camera 431, con l’obiettivo di raggiungere la 000, stanza che, a quanto pare, le permetterà di tornare nel mondo esterno.

Se ci fermiamo a riflettere, in fondo, le fiabe nascono per insegnarci qualcosa: a non fidarci delle apparenze, a temere il buio solo quanto basta, a capire che la curiosità può essere una virtù… o una condanna.
Bibliomania raccoglie quella stessa eredità antica e la trasforma in una storia moderna, elegante e crudele, dove non c’è lieto fine, solo la consapevolezza che certe porte, una volta aperte, non si richiudono più.

Alcuni lo paragonano a un moderno e più cupo Alice nel Paese delle Meraviglie, a partire dal nome della protagonista, e molto probabilmente l’ispirazione dell’opera arriva proprio da lì. Tuttavia, leggendolo ci ritroveremo in un vero e proprio Inferno dantesco: Alice, porta dopo porta, s’imbatte in mondi generati dai desideri degli ospiti, e il serpente che la accompagna diventa a tratti guida e a tratti minaccia, quasi un Virgilio ambiguo, a volte custode, altre simbolo di tentazione.
Forse è proprio questo il fascino di Bibliomania: un viaggio negli abissi della curiosità umana, dove le fiabe non servono più a consolare, ma a ricordarci che il sapere, come il peccato originale, ha sempre un prezzo.

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